San Pietro in Vallate, un angolo di romanico in Valtellina

Fra i beni culturali della Valtellina le rovine di S. Pietro in Vallate occupano una posizione di primo piano, sia per la vetustà del monumento, sia per la sua originalità e intatta ambientazione in un paesaggio che sembra rimasto fuori dal tempo.

“Si eleva a picco per circa cento metri, partendo dalla via Valeriana, conduce a quegli avanzi, che sorgono su di un altopiano in posizione pittoresca e salubre. Il campanile, il coro ed un tratto del muro della chiesa verso mezzodì, è quanto rimane dell’antica abbazia di S. Pietro in Vallate; tutto il resto cadde”.

Sono parole di un giovane studioso e poeta, Guglielmo Felice Damiani di Morbegno, che, da precursore della attuale sensibilità per la natura e l’arte locale, nel 1893 faceva conoscere uno degli angoli più pittoreschi della bassa Valtellina, con tanto di ruderi fra la quiete dei prati e dei boschi caserecci di castagno, al cospetto di un ampio sereno panorama che si allarga alla foce dell’Adda nel disteso bacino superiore del lago di Como.

Oggi la salita all’amena località è segnalata sulla statale 38 da un cartello che si affianca all’insegna di una discoteca: ci avvia nel villaggio di Piagno per indirizzarci su una comoda strada agricola dalla quale si diparte poi uno stretto e breve sentiero. Il paesaggio estivo, attorno ai ruderi è dominato dalla vegetazione arborea di castagni e robinie a volte assaliti dai rovi. Dove si riesce a trovare uno squarcio tra le piante, la conca inferiore della Valtellina che raggiunge il lago di Como appare certo più popolata di cent’anni fa: ai Montecchi che emergono dal Pian di Spagna si affiancano le antenne paraboliche di Telespazio, ma il punto di osservazione rimane immerso in un’atmosfera fuori dal tempo, dove la romantica “poesia dei ruderi” ci trasporta al Medio Evo.

 

Un campanile basso, dalla pianta quadrata possente, con una copertura piramidale in fitte piode che si sovrappongono fino alla cuspide priva di croce. Quattro ampie bifore, che l’assenza di campane rende occhiaie vuote e penetrate dal cielo, completate nella loro funzione decorativa da una serie di archetti pensili qualche chiazza dilavata di intonaco, il gioco magico delle proporzioni gli conferiscono un tono di riposante familiarità. Lo distinguono ostinatamente da una torre con funzioni militari per l’apertura disarmata della cella campanaria, per la ricerca discreta di una sobria e pacata eleganza. Un’eleganza che trova la sua più originale espressione nell’abside semicircolare, sensibilmente abbassata rispetto al corpo della chiesa, forse anche perseguire il dislivello del terreno.

Ed è in questa parete ricurva dalle dimensioni ridotte che il sapiente uso della più comune pietra locale raggiunge il massimo dell’espressività. Tre finestrelle ad arco, a doppio sguancio, sembrano incastonate fra quattro agili semicolonne che scandiscono l’abside in tutta la sua altezza e creano un movimento chiaroscurale completato dalle intense delicate vibrazioni di due fasce decorative, collocate a mo’ di zoccolo e di fregio, sormontato quest’ultimo da più rilevati archetti aggettanti. E una decorazione rara, ottenuta nel sottogronda con due file di cunei disposti a zigzag e da una fila a dente di sega, a cui corrispondono nel basamento due file a dente di sega.

 

L’eccezionalità della decorazione è sottolineata da tutti gli studiosi che non trovano facili riscontri in altri monumenti. E vero, le semicolonne risultano chiaramente posticce per la diversità del materiale adottato, ma le strette scanalature individuabili anche nelle foto precedenti il restauro del 1914 -16 non lasciano dubbi sulla loro presenza originaria, come del resto avviene in tanti altri monumenti del romanico non solo lombardo. Possente, anche per l’assenza di decorazioni l’unica parete parzialmente superstite, verso sud, elevata con pietre squadrate di diversa dimensione, con un ‘apertura architravata, alleggerita da un arco a tutto sesto.

Appena a sinistra dell’apertura, avanzi di muri indicano la presenza di un locale certamente adibito a dimora dei monaci anche se la mancanza di più ampie vestigia ha fatto pensare che il monastero vero e proprio potesse situarsi nel villaggio sottostante. La visita all’interno della chiesa dà un’idea ancor più chiara delle esigue dimensioni dell’edificio che in lunghezza, compresa abside e presbiterio, non raggiunge i 20 metri mentre la larghezza massima della navata principale sfiora i 5 metri. Si parla in verità impropriamente di navata principale, perché lo spazio sottostante il campanile, pure concluso da un’absidiola perduta, e che si prolungava per tutta la lunghezza della chiesa per un massimo di m. 2,70 in larghezza, si deve considerare un ambiente a se, forse un oratorio o cappella dedicata alla Vergine.

Rimane del presbiterio la volta a botte, tipica del romanico lombardo, nel cui ambito va chiaramente ascritto il monumento, che ne richiama di consimili per vetustà nel territorio dell’alto Lario e della Valtellina, come il tempietto di S. Fedelino sul Lago di Mezzola o S. Pietro a Teglio. Ma ognuna di queste chiese ha una sua fisionomia inconfondibile, segno di una particolare capacità di adattamento dei costruttori all’ambiente (non è fuori luogo parlare almeno di influenza dei Magistri Cumacini).

Così una piccola comunità di monaci con lontane origini francesi insediandosi in un territorio remoto dai grandi centri e discosto anche dalle vie di comunicazione, ha portato e ha lasciato una straordinaria impronta di religiosità e di sensibilità artistica. Pur nella modestia delle dimensioni: specchio di una realtà di tempi poveri ma certo non incolti quando bastava un piccolo spazio di pochi metri quadrati per raccogliere una comunità di monaci che, con la preghiera e il canto liturgico, davano un senso di religiosità e trascendenza alle fatiche di una poco più ampia comunità di famiglie.

Forse il maggior pregio di S. Pietro in Vallate, ai nostri occhi è quello di aver vissuto una storia che si ferma al Quattrocento. Con un inizio preciso nel marzo del 1078 (caso raro per edifici così antichi) quando i coniugi Ottone fu Cunitone e Boniza di Bonizone, dell’isola Comacina, compiono solenne donazione di nove appezzamenti di terreno, situati fra Cosio e Rogolo, fra campi prati selve e diritti di pascolo, alla chiesa Cluniacense dei Santi Apostoli Pietro e Paolo. A convincerli è il fratello di Ottone, il prete Rigizone, professo del monastero di Cluny, che si deve quindi considerare il vero fondatore di Vallate. Infatti sul primo appezzamento di terreno “cum campo et silva et prato et noceto et bosco et saxo et gerbo”, denominato Vallate, era già iniziata la costruzione di un edificio in onore dei Santi Pietro, Paolo e Maiolo. Si può quindi pensare che la costruzione di una chiesa e di un monastero cluniacense fosse già stabilita prima dell’atto ufficiale di donazione. Del resto, l’architettura stessa del tempio, pur manifestando forti connotazioni locali si inquadra nella tipologia cluniacense. Con la comparsa del piccolo monastero abbiamo la prima documentazione certa dell’insediamento dei Benedettini in Valtellina.

Ed è significativo che il più importante Ordine monastico dell’Occidente arrivi in queste terre secondo la riforma nata in Francia nel sec. X a Cluny, sotto la diretta protezione pontificia, che ha portato una ventata di rinnovamento spirituale e organizzativo in un periodo di corruzione e di contaminazione fra potere religioso e potere politico. Anche la Valtellina era fortemente infeudata ad abbazie di Milano, Como, Pavia, Parigi per citarne solo alcune, contesa da Vescovi pur con la preminenza costante di Como. Dal punto di vista ecclesiastico Vallate era compresa nella pieve di Olonio, che si estendeva dal lago al torrente Bitto e ontano e sconosciuto, soggetti passivi nelle pieghe di un ordinamento feudale ancora chiuso, anche se esposti a tutti i pericoli e le asprezze di un’epoca di ferro. Le poche chiese erano il loro orizzonte spirituale e umano. Le Crociate, la lotta per le investiture, la ‘guerra cumana’ che si svolgevano mentre l’abbazia veniva costruita, li coinvolgevano nelle conseguenze e lambivano appena una terra allora marginale rispetto al gran corso degli avvenimenti, come lo era stata al tempo dell’impero Romano»

La nascita di Vallate segna l’introduzione di un elemento che sfugge all’organizzazione ecclesiastica locale, un elemento di novità per l’assenza di competizioni economiche e di potere, un punto di riferimento per la vita religiosa, sociale e culturale aperta all’Europa cristiana che si riscuoterà dal torpore con una grande e drammatica figura di Pontefice come quella di Gregorio VII, un monaco di Cluny appunto. Successiva a Vallate (e non viceversa) è l’abbazia, sempre dei Cluniacensi di Piona, con una storia più fortunata, che l’ha vista risorgere, proprio come monastero di Benedettini questa volta Cistercensi una cinquantina d’anni fa. Ma già nel 1336, quando l’attuale orditura dei comuni nella bassa Valtellina si era ormai assestata, vallate era definita una “grangia”, una dipendenza da Piona, e non si sapevano più distinguere le rispettive proprietà delle due istituzioni.Nel 1367 Vallate non appare più nemmeno nell’elenco dei priorati cluniacensi della Lombardia, pur essendo stato uno dei primi come antichità di fondazione, dopo il monastero di S. Maiolo (999) di Pavia. Nel corso del Quattrocento il monastero di Piona, da cui dipendeva Vallate, cominciò ad essere soggetto alla “commenda”, l’affido cioè delle rendite a un prelato o a un nobile laico che tramandava il beneficio agli eredi quasi fosse un bene di famiglia. E’ ovvio quindi pensare alla decadenza dei monasteri: per Vallate abbiamo la triste testimonianza del Vescovo Ninguarda che, alla visita del 1589, riscontra nel villaggio la presenza di cinque famiglie di contadini tutte cattoliche, mentre nella chiesa di S. Pietro, dipendente dal Priore di Piona, vi è cappellano un religioso abruzzese per nulla raccomandabile, contro il quale saranno presi provvedimenti

La chiesa non ha né croce né candelieri la cappella maggiore è tutta discrostata, la soffitta è rotta e i legnami del campanile sono guasti, dal che si dubita che non casca la campana. Domenica 1° maggio 1608, proprio davanti alla chiesa di Vallate si svolge una strana manifestazione di protesta registrata da un notaio: i massari dell’abbazia, abitanti a Vallate, a Piagno, Rogolo, Gerola, Rasura e Pedesina, dichiarano di non voler pagare più i rispettivi canoni d’affitto sin quando non si provveda a riparare i muri i tetti la sagrestia, i paramenti le campane e gli arredi della chiesa. Ma ancora nel 1629 il vescovo Cara fino nella visita pastorale deve rinnovare al commendatario l’obbligo della riparazione nella chiesa non si celebra più nemmeno la messa, alla quale gli abitanti del villaggio assistono nella vicina Piagno, nell’oratorio dei Santi Gervasio e Protasio. E nove anni dopo lo stesso Vescovo sembra costretto a riconoscere il definitivo trasferimento del servizio liturgico nell’oratorio di Piagno. A metà del Settecento la situazione è ormai giunta all’estremo degrado. Intanto i commendatari di Piona continuano a godere delle rendite anche di Vallate, sebbene si trovino in uno stato diverso, e per di più spesso nemico.Dal 1512 la Valtellina era passata sotto il dominio dei Grigioni e il Ducato di Milano apparteneva agli Spagnoli fino al 1714 e poi agli Austriaci.

I territori comasco e Valtellinese si riunificano con Napoleone, ma con decreto del 2 giugno 1798 la Repubblica Cisalpina incamera tutti i possessi delle abbazie che vengono poi alienati. Dopo quasi un secolo lo studioso Diego Santambrogio scopre l’atto di donazione del 1078 e, assieme al Damiani inizia l’opera di sensibilizzazione per la salvezza del monumento, che trova rispondenza risolutiva nell’ing. Antonio Giussani di Como.
L’insigne studioso, che stava legando la sua fama di mecenate al recupero di Piona, visitò Vallate il 16 agosto 1906, e per salvare Vallate il Giussani non esitò, vista impraticabile ogni altra strada, ad acquistare i ruderi col terreno circostante. Così fra il 1914 e il 1916, dopo che il Ministero dell’istruzione Pubblica aveva iscritto i ruderi nell’elenco degli edifici d’importante interesse, il Giussani provvide al restauro, affidando la direzione dei lavori all’amico, e altrettanto benemerito studioso di arte locale, ing. Camillo Bassi di Delebio. Particolare attenzione è riservata all’abside, con l’aggiunta delle quattro semicolonne da considerarsi fedeli alla situazione originaria.

Gli eredi del Giussani donarono il terreno coi ruderi alla parrocchia di Cosio, mentre la sempre più diffusa sensibilità per l’arte e l’ambiente non cessava di attirare visitatori. L’abside e il campanile di Vallate sono diventati un’immagine familiare per i valtellinesi se non una delle più rappresentate dell’intera provincia. Ma per trovare un’altra tappa significativa della secolare storia del monumento, si deve giungere al 1978. Proprio nel IX centenario della fondazione, un gruppo di amici si costituisce in ERPAV e intraprende, con le necessarie autorizzazioni e la consulenza di esperti uno scavo ricognitivo che approda a interessanti risultati come la definizione della pianta della chiesa lungo il lato nord. Gli scavi portano alla luce due tombe comuni addossate ai lati nord ed ovest le fondazioni murarie di un edificio addossato al lato sud (a ovest della porta d’ingresso alla chiesa), e una serie di reperti poi custoditi presso il Museo Valtellinese di Storia e Arte di Sondrio, in parte esposti al pubblico.

I reperti databili tra il sec. XV e il XVII sono costituiti da una sessantina di cocci di terracotta (ciotole, brocche, piatti di varia foggia e dimensione) rinvenuti in tutta l’area degli scavi’ due coppie di speroni e tre speroni spaiati’ una decina di fibbie per cinturoni’ una parte di corazza in ferro (già rinvenuta probabilmente durante uno scavo clandestino); tre punte in ferro per foderi di armi bianche; undici proiettili sferici in piombo per archibugi un frammento di un piccolo calice in vetro; un cucchiaio, una forchetta e quattro coltelli’ un piccolo crocifisso; una trentina di monete, per lo più in rame, coniate tra il Cinquecento e il Seicento dal Ducato di Milano, dalla Repubblica di Venezia, dallo Stato Pontificio, dai Regni di Francia e Spagna, dalla Lega Grigia; centinaia di chiodi e numerosi altri pezzi in ferro. Come si vede, attorno alla chiesa, che all’inizio del Seicento non appare più officiata, almeno con regolarità, si registrano ancora segni di vitalità, che si possono identificare col culto dei defunti e con la presenza di truppe, magari alloggiate nell’edificio non ancora completamente distrutto, in posizione riparata e nello stesso vigile sull’ampio fondo valle.

L’iniziativa volontaristica del Gruppo composto da Enore Angelini, Carla Bulanti, Giulio Brambilla, Alberto Tampini e Stella Valentini si è aggiunta a un sempre più diffuso interessamento e a insistenti appelli finché la Comunità Montana Valtellina di Morbegno ha affidato a un’équipe di tecnici la redazione di un progetto per il ricupero del monumento di Vallate e per la valorizzazione ambientale e culturale delle aree circostanti. Dopo un laborioso iter burocratico, d’intesa con la Soprintendenza ai Beni Architettonici e Ambientali si è provveduto alla verifica delle condizioni statiche e finalmente, nella primavera del 1989, si è dato inizio al primo intervento conservativo. Con questa operazione si puliscono e si consolidano le strutture murarie e decorative, le tracce di intonaci le travi superstiti del campanile, con integrazioni solo in caso di stretta necessità. Si ripara la copertura del coro e dell’abside con copertina di malta si proteggono i muri mediante sostanze impermeabilizzanti si restaura la copertura in piode del campanile e dell’abside.

Naturalmente il monumento verrà liberato dall’infestazione di rovi e robinie, con un programma di ripristino dell’originaria vegetazione arborea di castagni e noci. Dopo aver rimesso in luce i perimetri murari già scoperti si intende proseguire con gli scavi sistematici. Il rustico a monte della chiesa verrà ricuperato con funzioni museali per raccogliere e rendere accessibile la documentazione iconografica, fotografica e bibliografica. L ‘ossario secentesco, venerato nella memoria storica col nome “I morti di Vallate”, ancora meta di processioni propiziatorie ai tempi del Damiani verrà completamente ristrutturato. Anche il sentiero che sale direttamente dall’antica pedemontana verrà ripristinato, mentre l’illuminazione con proiettori del campanile accentuerà per il monumento la funzione di segno nel paesaggio della bassa valle. Intanto, la proprietà è passata dalla Parrocchia al Comune di Cosio. E i pochi anziani superstiti che hanno vissuto tutte le vicissitudini del recupero di Vallate, dal Giussani in poi (e qui è d’obbligo citare il prof. Martino Fattarelli di Curcio), vedono ora con prospettive più consolanti la storia di un monumento avviarsi alla celebrazione del primo millennio

 

Il testo è tratto dalla descrizione “Vallate” della Comunità Montana Valtellina di Morbegno.

Le fotografie sono state scattate da me  nel corso della visita a San Pietro in Vallate del  18 agosto 2016 

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